Lingue migranti: una risorsa per tutti
Maria Vittoria Calvi
Università degli Studi di Milano
Negli ultimi mesi, la scuola italiana ha compiuto uno sforzo di rinnovamento senza precedenti, indotto dalla necessità di riprogrammare le attività didattiche in modalità telematica: un processo che ha richiesto non solo competenze in ambito tecnologico, ma anche un generale ripensamento delle metodologie didattiche. L’agenda dettata dalla crisi sanitaria, tuttavia, non è l’unica sfida che attende la scuola del futuro: una trasformazione non meno importante, anche se non così repentina e diffusa, è in atto, quanto meno, dagli inizi del millennio, quando la percentuale di alunni stranieri nelle aule italiane ha iniziato a crescere sensibilmente, soprattutto in alcune aree del Centro-Nord. Un fenomeno, spesso affrontato come un’emergenza e non come una realtà ormai strutturale che richiede risposte adeguate, di fronte al quale gli insegnanti non erano preparati, anche se l’impegno di molti ha prodotto feconde sperimentazioni e buone pratiche. Ma la gestione del plurilinguismo resta ancora una delle principali sfide per la scuola del futuro: benché l’attuale pandemia abbia impresso una svolta ai flussi migratori, di cui non è al momento possibile prevedere gli esiti, la realtà plurilingue della scuola italiana è un fatto incontrovertibile, che nessun virus potrà neutralizzare.
Le Linee guida per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri, emanate dal MIUR e aggiornate nel 2014, suggeriscono modelli di integrazione rispettosi della diversità linguistica e della lingua d’origine degli alunni, vista come risorsa per lo sviluppo cognitivo e affettivo. Il documento del 2014, in particolare, cita la Guida per lo sviluppo e l’attuazione di curricoli per una educazione plurilingue e interculturale proposta nel 2010 dal Consiglio d’Europa e riafferma la necessità di valorizzare la diversità linguistica e culturale, armonizzando i contenuti comuni dell’educazione con i bagagli individuali, in modo da favorire il successo scolastico degli alunni più vulnerabili. È noto, infatti, come la lingua madre abbia un ruolo basilare nello sviluppo cognitivo. Tuttavia, le modalità di riconoscimento della diversità linguistica suggerite dal MIUR si limitano a interventi sporadici, pensati più per i neo-arrivati che per gli esponenti delle seconde generazioni, nei quali il patrimonio linguistico-culturale originario è a rischio di estinzione, sotto la spinta della lingua dominante. In sostanza, l’ideologia linguistica sottesa pare volta alla piena acquisizione della lingua italiana come obiettivo finale, mentre le lingue originarie restano relegate a un ruolo sussidiario o a una tappa di transizione. La raccomandazione di “parlare italiano in famiglia”, in modo da favorire l’apprendimento della nuova lingua, ad esempio, ricorre nelle testimonianze sia dei giovani alunni sia delle rispettive famiglie di origine straniera1. Senza negare che la padronanza dell’italiano costituisca una priorità, va anche sottolineato che sul consiglio di privilegiare la lingua ospite pesano pregiudizi di vario tipo.
In primo luogo, la visione corrente dell’apprendimento linguistico è ancora ampiamente influenzata dalle teorie, di stampo strutturalista, che vedevano nella lingua madre un ostacolo per l’apprendimento di una nuova lingua, e che spinsero a “bandire” l’uso della L1 nelle classi di lingua straniera. A questo si unisce il pregiudizio, ancora tenace, nei confronti del bilinguismo: a fronte di opinioni molto positive, persiste l’idea che crescere un figlio bilingue possa generare confusione mentale. Opinioni confutate dalle ricerche, ma dure a morire, come sottolineato da François Grosjean in un suo noto volume sul bilinguismo2.
D’altra parte, si assegna valore al bilinguismo mediante due pesi e due misure: da una parte, si ambisce a un bilinguismo ‘alto’, riservato alle famiglie abbienti, che puntano per i propri figli alla padronanza di due o più lingue, prediligono per loro l’educazione bilingue (una delle quali l’inglese, of course) e investono risorse nella formazione internazionale; dall’altra, si discriminano i bilingui “spontanei”, che hanno maturato una competenza in più lingue attraverso i loro percorsi migratori, ma che faticano a inserirsi nel panorama linguistico della società di accoglienza. Questo comporta conseguenze diverse, che vanno dalla completa invisibilità delle lingue più deboli, al paradosso con cui alcune delle lingue più parlate nel mondo e sostenute da consistenti comunità migranti, come cinese, spagnolo e arabo, diventano, paradossalmente, minoritarie. Si ha quindi il sospetto che, talvolta, i percorsi di “integrazione”, intesi idealmente come un processo bidirezionale fondato sul riconoscimento e sulla valorizzazione della diversità (Berry 1997)3, sottendano politiche assimilative di tipo unidirezionale, e che l’educazione interculturale4 sia ancora un obiettivo lontano. Vista la carenza di risorse, gli interventi si limitano ad azioni di sostegno per i neoarrivati, affidate a mediatori culturali o a studenti dei corsi di laurea in Mediazione linguistica e culturale, ma difficilmente incidono sulle pratiche didattiche dei diversi insegnamenti.
La sfida consiste, dunque, nel ricomporre questa frattura, abituandosi a pensare al pluralismo linguistico come a una risorsa non solo per il bene dei migranti ma anche per la popolazione locale. Questo richiede ovviamente molta esperienza e un’adeguata formazione dei docenti: la gestione del plurilinguismo in aula non si può ridurre a una serie di consigli ma richiede una preparazione specifica. Non sono mancate le iniziative virtuose, così come pregevoli studi, ricchi di suggestioni, sulla didattica interculturale5, ma le lingue dei migranti sono ancora poco valorizzate, se non rese invisibili. Solo per fare un esempio, relativo all’area linguistico-culturale di cui mi occupo più direttamente, la presenza di alunni ispanofoni nelle classi di spagnolo come lingua straniera, anziché facilitare scambio di conoscenze, può perfino acuire la discriminazione: le varietà linguistiche parlate in famiglia, infatti, finiscono per essere stigmatizzate come “scorrette”, rispetto ai modelli normativi peninsulari più noti ai docenti; la preponderanza della pratica orale, paradossalmente, penalizza questi giovani parlanti rispetto ai compagni italiani nei compiti scritti, aumentando l’insicurezza linguistica. La gestione di queste delicate situazioni, in cui si incrociano dinamiche di prestigio linguistico e fattori individuali di varia natura, richiede ai docenti non solo sensibilità rispetto alla complessa problematica delle “lingue d’origine”, o heritage languages, ma anche una formazione specifica. Le lingue d’origine non vanno intese come varietà deficitarie rispetto ai modelli più “alti”, ma come repertori evolutivi da condividere e consolidare. Ovviamente, quando le lingue d’origine non sono neppure riconoscibili ma ridotte al silenzio, il senso di frattura, perdita e smarrimento è totale6.
In definitiva, viviamo immersi in una complessa realtà multiculturale, caratterizzata da nuove forme di plurilinguismo, rese ancor più flessibili dai flussi immateriali della comunicazione: rispetto alle migrazioni del passato, la connettività di oggi facilita il mantenimento dei contatti transnazionali. Anche se le misure di confinamento adottate su scala mondiale in questo inizio di decennio hanno innalzato barriere fisiche tra le persone, ponendo un sia pur temporaneo freno alla mobilità, lo ‘sconfinamento’ attraverso la rete si è imposto ancor più per le sue potenzialità. In questo scenario, alla scuola italiana si richiede un deciso cambio di prospettiva, nel segno di una formazione plurilingue più ampia e inclusiva.
A conclusione del mio intervento, vorrei citare le parole di una bambina ecuadoriana, che mostra una sorprendente capacità di vivere consapevolmente il bilinguismo: “Adesso sono in quarta elementare, ma mi piacerebbe andare in università. Vorrei studiare qualcosa che abbia a che fare con le lingue. A volte sembrerebbe difficilissimo perché, nella mia testa, ci sono due lingue anzi direi tre: l’italiano, lo spagnolo e anche quella ‘lingua’ che nasce dal mix tra l’italiano e lo spagnolo. Nonostante adesso questo sia un ‘problema’ per me so che nel futuro questo sarà un vantaggio. Sono una bambina che sa lottare per quello che desidera quindi so che abbatterò ogni ostacolo” 7. Con l’auspicio che la stessa energia positiva si diffonda nella scuola italiana del futuro.
Il contributo è pubblicato in: La scuola del futuro. Oltre la didattica a distanza Visioni e idee per rilanciare la scuola italiana, a cura di Marco Cruciani, Edizioni Scuola Terza Generazione
Il volume comprende i contributi di numerosi autori che hanno dato il loro sostegno al progetto di Scuola Terza Generazione, una piattaforma no-profit aperta e collaborativa, che offre percorsi formativi digitali multiformato per la Scuola 3.0. Può essere acquistato mediante una donazione sul sito http://www.scuolaterzagenerazione.it
1 È quanto emerge, ad esempio, da una ricerca pluriennale condotta nell’ambito del Dipartimento di Scienze della Mediazione linguistica e di Studi interculturali tra le comunità ispanofone a Milano (Maria Vittoria Calvi, “Interviste a immigrati ispanofoni. Repertori linguistici e racconto orale”, in Lingua, identità e immigrazione. Prospettive interculturali, a cura di M. V. Calvi, G. Mapelli e M. Bonomi, Milano, FrancoAngeli, 2010, pp. 87-103).
2 François Grosjean, Bilinguismo. Miti e realtà, Milano / Udine, Mimesis, 2015.
3 John W. Berry, “Immigration, Acculturation, and Adaptation”, Applied Psychology: An International Review, n. 46/1, 1997: 5-68.
5 Si veda, ad esempio, l’ampio saggio di Duccio Demetrio e Graziella Favaro pubblicato all’inizio del millennio e ancora attuale (Didattica interculturale, Nuovi sguardi, competenze, percorsi, Milano, FrancoAngeli, 2002).
6 Si veda a questo riguardo il saggio di Graziella Favaro, “Scritture e migrazioni”, Italiano LinguaDue, n. 2, 2013, pp. 28-39.
7 L’allieva, che frequenta la quarta elementare presso l’I.C. Rita Levi Montalcini di Buccinasco (Milano), è stata intervistata da María Belén Espejo Camacho, durante il percorso per la laurea in Mediazione linguistica dell’Università di Milano. Ringrazio l’intervistatrice e la maestra, Enza Rita Stefano, per avermi messo a disposizione questa preziosa testimonianza.
